domenica 28 ottobre 2012

Ha senso oggi scegliere il liceo classico?

Di sabato, verso fine mattina, mi capita di rimanere qualche minuto in auto a osservare ragazzi e ragazze che escono da scuola. Non lo faccio per divertimento o altro, è bene chiarirlo subito: la ragione ha a che fare col dovere di padre.

Comunque sia, li osservo. Zaini pesanti sulle spalle, sorrisi, continui sguardi intorno… Escono da un istituto, un liceo classico, più precisamente. Allora il mio sguardo si sposta da loro all'istituto, e non posso non pormi una domanda: cosa ha spinto questi ragazzi a scegliere il liceo classico?

Ciò che ho detto a mia figlia su quale fosse il mio pensiero a riguardo spero non abbia influenzato la sua scelta. Ma ho continuato a pensarci, raccogliendo qua e là immagini, parole, riflessioni che potessero puntellare più chiaramente la questione.
A meno che non si abbia in mente fin dall'inizio la professione che si vuol fare da grandi, scegliere il classico per il puro piacere di studiare letteratura, filosofia, greco, latino oggi sembra una scelta da pazzi. Ancor più se si continua all'Università. Perché farlo, allora?

Assistetti all' "open day" di un istituto classico. La cosa che mi colpì fu che, più che parlare delle materie cardine per quell'indirizzo, si sforzavano di gareggiare con gli altri istituti sul loro territorio, parlando cioè di scienze ("vedete, questo è il nostro laboratorio di fisica, così ben attrezzato…"), di matematica ("sapete, un alunno di questo istituto è stato preso a Ingegneria…"), inglese ("si fanno gite all'estero, per imparare meglio la lingua, per scambi culturali…")
Per carità, andava tutto benissimo, voglio dire, era sensato e giusto parlare anche di quelle materie, ma… e il greco? il latino? la filosofia, la letteratura? che fine avevano fatto quelle materie che sono il reale spazio che i potenziali alunni avrebbero dovuto abitare? Ebbi la sensazione che non se ne parlasse perché, essendo la necessità quella di mettere a confronto il Classico con altri licei o istituti, allora la partita si sceglieva di giocarla sul loro terreno.
Mi era una partita persa in partenza. E forse il calo delle iscrizioni ai licei classici lo dimostra.

A questo proposito c'è un interessante articolo, un'intervista a Giuseppe Zanetto, professore di Letteratura Greca alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Milano. Ve lo sottopongo e, anche se non lo leggerete, riporterò qualche suo pensiero.

Condivido molto di quell'articolo, comprese le perplessità e le speranze del prof. Zanetto. Ma… è come se mancasse qualcosa a definire meglio il cuore del problema.
Cuore… Sì, mi viene in mente un altro articolo, su "D" di Repubblica, in cui si invitava i professori a parlare al cuore dei ragazzi. Mi chiedo, allora: si parla al cuore anche quando li si deve convincere della scelta della scuola?

Il professore dice che bisognerebbe "rieducare i ragazzi a frequentare luoghi come teatri o musei, per aiutarli a conoscere la civiltà e le sue opere…". Giusto, ma prima o poi si dovrà pure spiegare loro l'importanza e l'utilità di questa conoscenza.
E infatti è ciò che fa, a grandi linee, il prof. Zanetto, facendo osservare che paesi come "gli Stati Uniti o l’Inghilterra sentono il bisogno di studiare latino, greco e materie umanistiche mai come prima d’ora." Giusto anche questo, ma qualcuno dovrà pur dire da cosa scaturisce e a cosa porta questo bisogno di studiare le materie umanistiche.
Nell'articolo il professore ricorda la frase recitata spesso dai ragazzi: “Il latino e il greco non servono a niente, sono lingue morte”, e aggiunge che, al contrario, dietro quelle materie ci sono "gli affascinanti insegnamenti degli antichi". Nulla da obiettare, ma questo fascino cos'è? Dov'è? Bisognerebbe studiare quelle materie solo per il loro fascino?
Il prof. Zanetto, in proposito, sottolinea che "L’antico non è ancora passato…", ma nonostante tutto "l’uomo moderno non si riconosce più nel pensiero, nel discorso letterario e di conseguenza non riesce nemmeno a cogliere il richiamo alla vita che questo esercita", e che chi legge di cultura greca e latina è risvegliato a "una letteratura che promuove il senso della realtà e promuove quella problematicità della vita umana." "Pertanto", termina il prof., "sostengo l'importanza degli antichi per il recupero di noi stessi. Il liceo classico, che ora sta pagando il fardello della crisi, è il vero luogo da cui ripartire."

Fine dell'intervista. Applausi. Ma sinceri, anche da parte mia. Non solo per l'enfasi nella conclusione, ma anche per le verità dette.

Solo che… cambio pagina e quelle parole progressivamente svaniscono. E questo accade perché hanno tentato di convincermi agendo sulla mia ragione e non sul cuore. Ma la ragione è facile preda di mille altri e più astuti sostenitori di opposte teorie, che vedono ad esempio la scienza come unica medicina per il futuro.

Penso a qualcosa che possa parlare al cuore, allora.
Perché scegliere materie umanistiche? Perché lo fanno all'estero, negli Stati Uniti e non qui?

Non ho in mente una risposta, ma un discorso. Anzi due.


Il 27 agosto del 1964 Robert Kennedy alla convention democratica ad Atlantic City tenne un discorso in cui commemorò il fratello John, ucciso il 22 novembre dell'anno precedente. Un discorso che strappò ventidue minuti di applausi e chissà quante lacrime. Un discorso che emozionò lo stesso Robert Kennedy, che al termine si appartò in un sottoscala da solo, con gli occhi lucidi. In quel discorso Robert Kennedy citò il poeta Robert Frost, ma soprattutto si sentì coinvolto emotivamente quando citò un brano di Shakespeare, tratto da Romeo e Giulietta, in cui Giulietta, presagendo la morte di Romeo sogna che il ricordo del suo amato possa durare in eterno, con la stessa bellezza di un cielo tempestato di stelle.
Cinque anni dopo, il 4 aprile del 1968, sempre Robert Kennedy durante la sua campagna elettorale a Presidente degli Stati Uniti viene informato in auto, poco prima di tenere un comizio nell'Indiana, dell'assassinio di Martin Luther King. Nel discorso che terrà di lì a pochi minuti, il più profondo messaggio che sente di trasmettere, a memoria, alle migliaia di persone che gli sono intorno è tratto dall' "Agamennone", di Eschilo, ricordando a tutti che si arriva alla saggezza attraverso la sofferenza. Il brano faceva parte di un saggio, "The Greek way" sulla tradizione classica greca, che Kennedy amava leggere e rileggere e che tempo prima lo convinse a candidarsi.

Eschilo

E allora, se la persona che con ogni probabilità sarebbe diventata la più potente della Terra si affida alla letteratura e a citazioni del mondo classico, greco per trovare e trasmettere forza, vuol dire che quelle parole hanno in sé un'inconfutabile potenzialità e conservano una granitica attualità. E venivano dette da un candidato alla Presidenza che aveva fatto un discorso chiaro sul PIL, sul fatto che una nazione non può essere valutata per quanto produce ma per come vivono i propri abitanti, per lo sviluppo della sua istruzione, perché il PIL "non comprende la bellezza della nostra poesia". A pensarci… È terribile… È terribile come la mia generazione abbia disatteso quelle speranze. Oggi sembrano incredibilmente attuali queste parole, in un mondo in cui regna il "mercato" (qualsiasi significato questa parola abbia) e dove il "consumo" ha tolto spazio e vita all'essere umano. È evidente che qualcosa è venuta meno, quel "senso della realtà e della problematicità umana".

Tutti quei discorsi di Robert Kennedy furono tenuti in anni in cui il mondo era sull'orlo della terza guerra mondiale, con la crisi cubana per l'invasione della Baia dei Porci, la guerra del Vietnam in corso, i diritti dei neri ottenuti a un prezzo raccapricciante di vite umane. Mai l'umanità era stata più a rischio, mai aveva vissuto anni più pericolosi.
Bene, in quegli anni, col mondo sul baratro del disastro, cosa fa un candidato alla Presidenza della nazione più potente della Terra? Si affida alla poesia, a Shakespeare, ad Eschilo. Se lo hanno poi ammazzato, Robert Kennedy, il 5 giugno del 1968, lo hanno fatto per le sue idee, per la forza del suo pensiero, un pensiero che poggiava tenacemente su una visione umanistica della società. Erano idee che non piacevano, erano pericolose, troppo progressiste, troppo vicine all'Uomo. Non era un visionario, se lo hanno ammazzato, ma un uomo dalle idee potenti, rivoluzionarie, idee che rappresentavano una speranza per milioni di persone, e disegnavano una nuova società. Ed erano idee nate da una cultura classica.

Ora, scegliere un liceo classico invece che un altro indirizzo, naturalmente, non è che metta a rischio la vita di qualcuno, e non deve far pensare a insegnamenti che carichino troppo di responsabilità. Ma è utile far capire che le conoscenze a cui un ragazzo potrà accedere gli offriranno quegli strumenti indispensabili per disegnare una diversa società, se solo si avesse la forza di farlo.

Immagino, allora, un "open day" diverso, in cui si parli al cuore, facendo leva proprio sulle materie che caratterizzano un indirizzo classico, con questi argomenti. Anche con questi. Se un ragazzo o una ragazza nel sentire queste parole non avvertisse anche un solo battito in più del proprio cuore, o non provasse quella strana sensazione di chi si trova, a sua insaputa, nel luogo da cui è necessario "ripartire", allora è bene che non scelga questo indirizzo. Penso, però, che i ragazzi abbiano più voglia di provare emozioni e di tentare cambiamenti di quanto crediamo. Se solo gli venisse spiegato come e dove possono farlo.

giovedì 18 ottobre 2012

Regole in poesia? Sì, no…


Da poche settimane è ripreso il palinsesto invernale delle trasmissioni e finalmente posso tornare alle mie (sane?) abitudini serali.
Accendo il televisore e prendo un libro tra le mani. Non è necessario guardare lo schermo (sarebbe abbastanza stupido da parte mia fissare per due o tre ore una superficie nera: sono soglie di pazzia non ancora raggiunte). Non è necessario perché il mio apparecchio lo uso come un radio-televisore, ormai. E il palinsesto a cui mi riferisco è quello radiofonico.
A parte qualche uscita serale in compagnia, o qualche film (che, accuratamente selezionato, vedo non appena posso), ci sono due trasmissioni che fanno da sottofondo alle mie serate. Una è su Radio 2. Si tratta di "Rai Tunes". L’invidiabile voce del conduttore, Alessio Bertallot, ti accompagna tra musiche, interviste, letture di brani letterari (Furore, Moby Dick, ecc.) con una discrezione notturna da consentirti di leggere qualsiasi cosa, nel frattempo.

A mezzanotte si cambia stazione. Su Radio Capital per un’ora mandano in onda “Parole e Note” (la ragione per cui scrivo questo post). A dire il vero questo programma non segue una programmazione precisa, ma questo non importa.
Musiche, poesie, brevi biografie di poeti, romanzieri… Tutto, però, ruota intorno alla poesia. Puntualmente, sia nel corso di ogni trasmissione che in apertura, vengono riproposti alcuni dialoghi tra John Keats e la sua Fanny, tratti dal film “Bright Star” (http://www.mymovies.it/film/2009/brightstar/)  (vedetelo, se non lo avete ancora visto).
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Keats: “Se la poesia non nasce naturalmente come le foglie di un albero allora è meglio che non nasca affatto.”

Oppure

Fanny: “Ancora non so come comprendere una poesia…
Keats: “Una poesia deve essere compresa attraverso i sensi: lo scopo di tuffarsi in un lago non è di nuotare immediatamente a riva, ma restare nel lago, assaporare la sensazione dell'acqua. Non si comprende il lago, è un'esperienza al di là del pensiero. La poesia lenisce l'animo e lo incita ad accettare il mistero.”
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Fin qui tutto ok, e, forse, tutti d’accordo. Poi, però, mi tornano in mente le parole di Valerio Magrelli alla trasmissione di Fazio e Saviano, “Quello che (non) ho”. (http://youtu.be/SThH_0B1bcI?t=16s)
(ascoltare una trasmissione radiofonica e per un attimo ricordarsi con una certa precisione del passaggio di una trasmissione televisiva di mesi prima tratteggia uno stato mentale di cui, forse, dovrei preoccuparmi. Ma vi giuro che è andata proprio così. E, stupidamente, i ricordi diventano epifanici momenti.)
Magrelli, allora.
Magrelli diceva che prima di iniziare a parlare o a scrivere o a leggere di poesia bisogna studiarla, bisogna andarsi a comprare un manuale in cui siano esposte le regole, oppure bisognerebbe iscriversi a un corso universitario specifico. (Quanto è irritante sentire certe…)

Sembra esserci una profonda contraddizione tra la riflessione di Keats e l’invito di Magrelli. Qualcosa non quadra.
Immagino che tutti quelli che si dedicano alla poesia nel loro privato – ognuno col suo libricino, coi propri versi –, trovino le parole di Keats come un… Vangelo, e vedano quelle di Magrelli come la spocchia di un cattedratico arroccato nella propria autorevolezza, in un mondo dove si vogliono tenere alzate barricate, a difendere fino allo stremo un sapere e un’arte riservata a pochi eletti.

Certo è affascinante, romantico immaginare un poeta che, preso da folgorante ispirazione, compone versi senza dar conto a nulla, se non alla sua estasi poetica.
Non credo che le cose stiano esattamente così. Non è la poesia a nascere naturalmente, ma l’ispirazione poetica, il pensiero che si vuole fissare nella forma di poesia. Poi la forma richiede attenzione, a tutto: alla scelta delle parole, alla loro disposizione, al loro suono. E anche alle regole.
Le figure retoriche nelle poesie non sono strumenti di scrittura – o regole, appunto –, ma metodologie estetiche che rafforzano emozioni, pensieri, contesti, tensione, bellezza. La loro conoscenza non è necessaria per emozionarsi nel leggere una poesia, ma probabilmente diventa indispensabile quando si vuole trasformare un pensiero in versi.
Non esiste uno scrittore, credo, che, illuminato da luce divina, o posseduto da entità sconosciute, componga versi di getto, senza alcun intervento successivo. Il tempo dedicato a un solo verso di una poesia presumo che sia di gran lunga maggiore a quello necessario per la stesura di un’intera pagina di un romanzo. C’è una sola, precisa parola per definire un esatto pensiero, e c’è un solo modo per metterle tutte insieme, le parole. È un lavoro lungo, e presuppone – oltre che sensibilità, naturalmente – anche meditazione, attenta cura nel modellare il verso in ogni sua parte.

(foto di Vittorio Longoni)
Il consiglio di Magrelli, quindi, è prezioso. Molto. Ha il difetto di essere stato espresso in maniera poco convincente. Avrebbe dovuto prestare maggiore attenzione alle parole anche in quel caso (Magrelli è un poeta, del resto…), scegliere un modo diverso per suggerire l’importanza delle regole.
Che poi, alla fine, conoscerle, le regole, diventa anche un’esperienza interessante, piacevole. Se tuffandoti in un lago (mi perdoni Keats se mi rifaccio…) dicevo, se tuffandoti in un lago qualcuno ti dicesse come sia possibile rimanere più facilmente a galla, allora godresti della bellezza del lago con maggiore piacere.

Questa storia delle regole, dunque, sembra essere vera, per la poesia. Mi chiedo come mai se ne parli poco per la narrativa. Sembra che in quest'ultimo ambito sia concesso tutto, o che attenersi alle regole voglia dire semplicemente adeguarsi alle modalità dominanti delle tecniche di scrittura (attualmente, una, ad esempio, è quella postmoderna). Magari bisognerebbe che qualcuno insegnasse altre regole, che aiutino a trasferire sul foglio emozioni invece che inchiostro, o a scrivere per il lettore piuttosto che per il mercato. In fin dei conti, si tratta di regole semplici. Tutto qui.

In ogni caso, se vi va – e soprattutto con chi vi va –, provate a trascorrere una serata così: radio accesa, un divano, un libro, qualcuno accanto. Il trascorrere del tempo viene scandito da atmosfere inaspettate.